Tratto anch'esso dalle vicende della Sardegna postapocalittica ideata dal mio gruppo di gioco, questo racconto è uno dei pochi in cui credo (forse un pochino presuntuosamente) di aver legato il concetto di magia al futuro della mia terra. Amo il folclore della mia isola, L'isola Bambina come la chiamiamo noi. Questo racconto mi ricorda che non ci sarà mai abbastanza cemento per cancellare tale amore dal mio cuore.
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Catene di Nuvole
La notte le favole stingono e si vestono di nuvole.
Sulla sommità della montagna aleggiavano in attesa della nuova stagione pazienti e sonnolente, infastidite di quando in quando da venti pungenti.
Le colline di Fonni brulicavano di vita. Schiamazzi di donne, bambini e galline.
Vecchi ciucchi, genia di nobili lavoratori che avevano servito nelle miniere, arrancavano ora giù dalla montagna, guidati da uomini in cappotto e berrita che li esortavano decisi tenendoli alla longia.
Portavano un carico prezioso che avrebbe fruttato bei quattrini o almeno degni favori.
Le nuvole intanto macchiavano d’ombra la mulattiera che scorreva pigra accanto alla vecchia funivia.
Lui li aveva osservati mentre frantumavano e caricavano in groppa alle loro bestie il cristallino ghiaccio. E si domandava cosa provassero , cosa trovassero nel duro lavoro, in quel compromesso di libertà che lui non avrebbe mai vissuto.
Conosceva la montagna come riconosceva il proprio odore, perché lui era il guardiano della montagna e la montagna era la sua prigione.
Gli uomini della valle lo temevano come già avevano temuto suo padre e si tenevano alla larga dalla sommità rocciosa dove sorgeva la torre.
E così lui era solo. Da solo e con un padrone violento.
Il suo signore era antico e potente, alto sedici piedi e forte come tutti i giganti. Era il mere della montagna, il padrone del ghiaccio e delle terre giù a valle.
Se gli uomini lo riverivano, lui permetteva che salissero a prendere il ghiaccio da vendere ai villaggi vicini. Altrimenti diveniva iracondo e ogni giorno soffiava il gelo nella vallata.
Col tempo gli abitanti avevano accettato le piccole spese da affrontare per contentare il loro padrone. Una bestia ogni giorno, birra e vino in abbondanza e un bimbo sfortunato due volte l’anno.
Per fortuna il Padrone dormiva per gran parte del giorno. Così lui poteva guardare le nuvole sbadigliare e, quand’era fortunato, gli uomini lavorare appena sotto il pianale.
Era giovane ma aveva appreso già tanto sugli uomini e sulle loro abitudini. La cosa che gli muoveva maggiore interesse erano i nomi.
Si, perché gli uomini si chiamavano tra loro e rispondevano a quel richiamo. Perfino le loro bestie parevano esserne dotate.
Ed erano in un certo qual modo liete di quel nome che pareva ridar loro la fiducia, il senso dell’orientamento.
Lui non aveva un nome, che vergogna.
Le bastonate del padrone, quel padrone ingrato che ora vestiva la pelle lanosa di suo padre.
Ma dove andare, in un mondo sconosciuto dove tutto ciò che si allontana dalla montagna diviene irrimediabilmente piccolo, sino a sparire. Dove andare senza un padrone, portando con se la paura fin negli occhi degli uomini. Dove andare.
Se solo qualcuno gli portasse un nome…